1. L’EVENTO.
Narrare i vangeli, narrare la passione (p. Antonio Consonni)
L’EVENTO. Si sta affermando come un momento desiderato da parte di insegnanti, educatori e personale della Scuola insieme ai religiosi della Sacra Famiglia quello di vivere un tempo di preparazione al Natale e alla Pasqua di Gesù nella bella e intensa cornice della nostra Chiesa dell’Incoronata. Questo momento (una volta lo si chiamava ritiro spirituale) lo abbiamo vissuto anche quest’anno nel giorno di sabato 23 marzo, dalle 9.00 alle 12.00. Posti davanti al grande affresco della Passione e Morte di Gesù di Pietro Baschenis -affresco voluto e pagato da un comandante albanese di stanza a Martinengo come atto di gratitudine alla popolazione martinenghese per la calda ospitalità- ci siamo lasciati prendere per mano per immergersi nella Narrazione della Passione, Morte e Risurrezione di Gesù secondo l’evangelista Giovanni (Giovanni, cap 18,19,20), nello stile -non di una semplice lettura del testo- ma di una drammatizzazione scenica dove la parola, la musica del piano e del violoncello insieme ad alcuni movimenti e la visione di alcuni oggetti concorrevano a dare spessore alle parole del vangelo, logorate tante volte dall’abitudine dell’ascolto. E così la voce di Antonella -ora leggera, ora determinata, ora urlante a seconda delle persone a cui doveva dare volto- era sostenuta dalla musica del pianoforte del maestro Paolo, sempre attento ad essere a servizio della Parola e della Voce. In questa Pasqua si è aggiunto al pianoforte il suono profondo, intenso e sensuale del violoncello che apriva il cuore a profondità insperate. Le musiche sono sempre ‘trovate’ dal maestro e queste, riflettendo il clima della passione, erano particolarmente incalzanti e belle. La voce e la presenza di Giada -una bambina della nostra Scuola, 3 primaria- hanno stemperato il dramma e continuamente ci ricordavano quello che noi facciamo: che Gesù è venuto nel mondo come Luce, Acqua, senso veri, ma i suoi non l’hanno accolto, e tuttavia <a quanti l’hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio>. Se si riesce a ‘dare forza’ alla parola in questo modo è anche perché l’esperienza di preparazione che ci sta dietro è particolarmente preparata.
LA SFIDA. Narrare è un’esigenza antropologica necessario. Poiché da bambini abbiamo imparato a ‘bere e mangiare’ le parole della madre e, attraverso esse, abbiamo sperimentato vicinanza, cura, amore… è nell’anima di ogni uomo e di ogni donna, di ogni cultura e religione questo bisogno insopprimibile di ascoltare storie e di immergervisi. Il nostro Occidente oggi è persino ammaliato dalla riscoperta del racconto come forma antropologica, fondativa di istanza identitaria e memoriale (personale e collettiva) nel tempo. Come ci ha istruiti Paul Ricoeur, là dove sono tempo e istanza identitaria, lì c’è racconto e viceversa. Raccontare una storia è rispondere alla domanda identitaria di un chi?, sottoposto alla sfida del tempo, in cui permane socialmente identificato (come idem), pur incorporando tutte le proprie improrogabili, imprevedibili trasformazioni (che ne fanno un ipse, un Sé come un Altro). Lì si afferma l’esigenza di ritrovare il proprio «cerchio narrativo» -confronto con altre storie, rilettura incessante della propria alla luce di nuovi eventi-, ritagliato comunque sempre all’ombra di grandi narrazioni per cui la decostruttiva sensibilità postmoderna certo non simpatizza, pur non sapendo assolutamente farne a meno, anche a costo di sminuzzarle a proprio più restrittivo uso e consumo.
Sempre entro questo orizzonte, per riferimento all’intrigo, vera anima di ogni racconto, si è oggi chiarificato pure il nesso intrinseco di: fatto storico, senso e interpretazione, che lo storicismo prova e riprova a scorporare, disattendendo che il fatto esiste solo nell’intrigo, cioè saldamente reticolato ad altri fatti, viceversa è un sacco vuoto, che non può stare in piedi. Da menzionare poi quell’aspetto particolarmente cruciale per il racconto evangelico, il nesso cioè sempre più intrinseco e ancora in larga parte da esplorare, tra scoprire e inventare, tra storiografia e romanzo, un collegamento di cui responsabile è l’immaginazione narrativa che presiede ad ogni ordito, ad ogni messa in intrigo.
È dunque fondamentale la domanda elementare: cosa fa di un racconto un racconto? (preludio ad un altra successiva: cosa fa di un vangelo un vangelo?), rispondendovi con una definizione descrittiva: il racconto è quella forma di produzione/comunicazione artistica con cui un autore affida all’istanza di una voce narrante un intreccio di eventi e un conflitto di personaggi ambedue esistenzialmente coinvolgenti i propri destinatari (attuali e virtuali); i quali potranno così misurarsi (immaginativamente, praticamente, intellettivamente) sulla configurazione di diversi punti di vista intrecciata dal racconto stesso[1].
Nelle nostre ‘narrazioni evangeliche’ sperimentiamo come i racconti hanno una loro forza interiore che -collocate nel contesto giusto, liberate dal gravame di una dottrina polverosa, restituite alla loro incandescenza di racconti orali- raggiungono il cuore, non solo di adulti, ma anche di bambini e di ragazzi. C’era una tensione emotiva nello spazio della Chiesa in queste narrazioni che ti sembrava di essere lì: di essere tu Gesù, oppure di essere tu la folla o i discepoli. E l’efficacia e la verità del racconto è quello di ‘costringerti’ a prendere posizione, a determinarti dove voler stare.
IL FUTURO. Attorno alla Parola narrata c’è stato poi un momento di illustrazione della struttura del testo e del senso del racconto nel complesso del vangelo di Giovanni da parte di p. Gianmarco, ma anche un momento di sguardo davanti all’opera d’arte de LA DEPOSIZIONE di Sergio Fasolini da parte di mons. Tarcisio, e infine una preghiera, perché la parola deve diventare preghiera per l’abisso incolmabile che sempre rimane tra l’amore di Gesù e le nostre fatiche. Tutte le nostre parole, le nostre illustrazioni, le nostre preghiere si capiva immediatamente che provenivano da un centro, da un fulcro attorno a cui ruotava.
Crediamo che questa esperienza offra una proposta interessante per avvicinarci a quei ‘credenti non praticanti’ (Valérie Le Chevalier) che sempre più abitano il nostro cuore e le nostre comunità, ma che -pur non ‘praticando’- sono in ricerca di senso e di verità di vita. Del resto, nei vangeli Gesù è circondato da persone che lo frequentano e si legano a lui in modi differenti: la folla, i discepoli, gli apostoli, ma anche tutti quelli che dopo averlo incontrato sono rinviati alle loro case, alle loro famiglie. La missione dei fedeli integrati nella chiesa consiste forse nel camminare a fianco di quei battezzati che, come i due testimoni di Emmaus, attraversano la quotidianità senza riconoscere l’esplicito legame tra scelte personali, amore e vangelo. Del resto l’attestazione di fede più limpida e chiara, nel vangelo di Marco, è stata fatta da un centurione romano, che -senza aver ‘praticato’, senza aver fatto cammini di fede, senza aver incontrato ‘discepoli’- là sotto la croce riconosce in quell’Uomo il figlio di Dio: <davvero quest’uomo è figlio di Dio> e, Marco l’evangelista, lo fa diventare la figura del cristiano modello.
P. Antonio, augurando a bambini e ragazzi la buona pasqua, ricordava le ultime parole del vangelo di Giovanni che venivano pronunciate da Giada: <Gesù fece altri segni in presenza dei suoi discepoli, ma questi sono stati scritti perché voi crediate e perché credendo abbiate la vita nel suo nome>. Ecco davvero è una parola di vita, Gesù e il suo vangelo, e a questo fuoco, acqua, senso vorremmo stare attaccati.
[1] Nella nota teoria, Ricœur tripartisce l’intero orizzonte narrativo in prefigurazione (il mondo vissuto, precedente al racconto, per cui le azioni già in qualche modo ne danno una versione preliminare appuntata), configurazione (il mondo effettivamente raccontato), e rifigurazione (il mondo del lettore rimodellato a partire dal mondo del racconto, sintesi tra l’intreccio narrato e il proprio intrigo esistenziale vissuto).
Autore
- p. Antonio Consonni
Data
- 30/03/2024