Resurrezione
Alessandro Manzoni
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È risorto: il capo santo
più non posa nel sudario
è risorto: dall'un canto
dell'avello solitario
sta il coperchio rovesciato:
come un forte inebbriato,
il Signor si risvegliò
Era l'alba; e molli il viso
Maddalena e l'altre donne
fean lamento in su l'Ucciso;
ecco tutta di Sionne
si commosse la pendice
e la scolta insultatrice
di spavento tramortì
Un estranio giovinetto
si posò sul monumento:
era folgore l'aspetto
era neve il vestimento:
alla mesta che 'l richiese
dié risposta quel cortese:
è risorto; non è qui.
IL GRIDO DI GIOIA: È RISORTO! Della “conversione” di Alessandro Manzoni ha certamente sentito parlare chiunque abbia avuto per le mani un manuale di letteratura italiana; vale tuttavia la pena parlarne qui, perché essa costituisce l’imprescindibile “chiave d’accesso” al progetto degli Inni Sacri, di cui La Risurrezione fa parte, anzi costituisce l’inizio. Occorre allora subito precisare che la “conversione” del poeta non fu un passaggio da una religione all’altra: battezzato e cresciuto in un ambiente cattolico, almeno formalmente, fu la conversione della seconda moglie Enrichetta dal calvinismo al cattolicesimo ad aprire l’anima a profonde domande spirituali e a condurre lui, frequentatore dei salotti “illuministi” parigini, ad aderire con piena consapevolezza alla fede cristiana. E come avviene per molti che “tornano” alla fede, a cambiare non sono tanto i comportamenti morali o le pratiche di pietà, ma la stessa visione della vita, propria e altrui; il senso dell’esistenza si colora di tinte nuove e inedite, espressione di una gioia che non consuma il cuore e la mente, ma le riempie a tal punto da chiedere di essere comunicata, anzi “gridata”. Ecco dunque come possono essere considerati gli Inni Sacri, e in particolare la Risurrezione, che, scritta nel 1812, fu il primo dei cinque (l’idea originaria ne prevedeva dodici, ciascuno dedicato ad un’importante festa liturgica cattolica) ad essere concepito: un grido di gioia per il passaggio dall’indifferenza alla fede, dal buio alla luce, dal sepolcro alla vita; una personalissima pasqua, insomma. E non è un caso che proprio un grido apra la poesia e si riproponga anaforicamente per ben tre volte nelle prime due strofe: passando dall’incredulità meravigliata dei primi versi all’evidenza della seconda strofa, Manzoni prosegue fino almeno alla quarta sottolineando la portata dell’evento. È l’entusiasmo del credente di cui parlavamo sopra per una scoperta tanto straordinaria da rinnovare la vita. Se la fede è prima di tutto incontro personale col Cristo risorto e vivente in eterno, Manzoni ci grida che lui lo ha incontrato e a servizio di questo grido mette tutto se stesso e dunque anche la sua poesia (ancorché acerba e talora incerta e stridente nell’affrontare i temi religiosi). La fede scaturita da tale incontro, poi, non ha bisogno di prove e il poeta sa bene che l’unica evidenza di fronte alla quale si trovarono le “pie donne” e gli apostoli e, come loro, ogni credente è quel sepolcro vuoto; nessuna risposta dunque alle domande dei primi versi, solo una pietra rotolata via e una lunga similitudine nella terza e quarta strofa per descrivere ciò che nessuno ha visto con gli occhi del corpo.
TRA VANGELO E LITURGIA. “L’utile per iscopo, il vero per soggetto e l’interessante per mezzo”. Così nella celebre lettera a Cesare d’Azeglio (1823), Manzoni esprimeva ciò che la letteratura doveva a suo avviso perseguire. A costo di “forzare un po’ la mano” all’interpretazione più ortodossa, proseguendo la lettura della poesia, mi pare di poter scorgere anche in questi versi traccia di questa sua profonda convinzione. In effetti, dopo quella che diverse fonti critiche definiscono la “caduta dell’ispirazione poetica” che si percepisce nelle strofe da cinque a otto, dove il poeta ricorre alla narrazione “metastorica” della discesa agli inferi del Cristo, riecco l’alba (v.57), ecco il ritorno ai fatti, al vero storico testimoniato dal Nuovo Testamento; l’annuncio gridato fin dal v.1 (“È risorto”) abbandona in qualche modo la dimensione teologica, dogmatica e, appunto, metastorica e si radica nella storia avendo come fonte appunto il Vangelo, in particolare quello di Matteo (cfr. Mt 28, 1-7). Nei primi versi della nona strofa, la scelta dominante di suoni consonantici nasali, permette al poeta di trasmettere al lettore la pesantezza d’animo con cui le donne, in quel mattino del primo giorno dopo il sabato, si ricavano al sepolcro; poi, però, qualcosa cambia: prima un terremoto sembra scuotere più la mestizia che il monte Sion (v.60-61), poi l’apparizione dell’angelo, non a caso paragonato ad un fulmine e al candore della neve (vv.66-67), porta luce e rivitalizza il racconto facendo eco ancora all’annuncio che regge tutto il componimento: “È risorto; non è qui” (v.70). Da qui tutto in qualche modo si illumina e l’irruzione improvvisa della liturgia pasquale della Chiesa che abbandona i paramenti viola, simbolo di mestizia, per ritrovare proprio l’oro e il bianco diviene invito ai sacerdoti a farsi a rivestirsi dei colori e della missione dell’angelo; a farsi messaggeri dello stesso annuncio (vv.71-77) che è anche il cuore della preghiera Regina coeli (strofa 12). Né appare poi così brusco (come taluni sostengono) questo passaggio dal Vangelo alla liturgia se si considera che protagonista degli Inni Sacri è la Chiesa, comunità vivente, la cui storia si dispiega senza soluzione di continuità a partire da quell’alba…
DALLA FEDE ALLA VITA. Se lo scopo della letteratura deve essere l’edificazione civile e morale del popolo, neanche gli Inni Sacri fanno eccezione, anzi! Pur muovendo da un’esperienza tanto intima quale una “conversione”, Manzoni non scrive solo per sé; tutto in questa poesia è popolare: la scelta del tema religioso-liturgico, quella del verso ottonario che rende più sciolta la narrazione articolata in sedici strofe e quella di un linguaggio nel complesso semplice dicono la volontà di trasfigurare la dimensione soggettiva dell’opera in una davvero comunitaria capace di accomunare fedeli di ogni estrazione sociale. In tal senso non stupisce che le ultime strofe della poesia costituiscano una sorta di esortazione fraterna (v.85) a tradurre la fede professata nei riti pasquali in opere, in vita concreta. Ma l’intento morale non scade nel moralismo: la tredicesima strofa invita infatti non tanto a compiere gesti o ad osservare precetti, ma a deporre la tristezza e lasciarsi ricolmare dalla gioia incommensurabile della notizia che il Risorto stesso è: la morte è uccisa, la vita ha vinto! Solo allora, solo animata dallo stesso stupore gioioso che fu, per esempio, degli apostoli Pietro e Giovanni quando misero piede nel sepolcro vuoto, la vita cambia e si apre alla carità (amore gratuito) verso i bisogni dei fratelli (vv.92-98). C’è pure chi, leggendo questi versi, ha effettivamente accusato il Manzoni di indulgere al moralismo, tuttavia tale giudizio appare in parte giustificato solo se non si considera che il poeta è mosso dal sincero desiderio di condivisione (che si fa quasi missionaria) di quanto lui stesso ha vissuto: la gioia pacata e serena di cui scrive (vv.99-105) è prima di tutto la sua, quella di Alessandro; è lui stesso l’uomo che, dopo avere per lungo tempo compiuto “passi erranti/ nel sentier che a morte guida” (vv.109-110) ora si sente beato, felice e non può non comunicarcelo perché anche noi viviamo la stessa esperienza. Insomma, è vero: questa poesia non è certo il capolavoro del Manzoni poeta, ma è pervasa da un’intima gioia che si comunica, da una speranza che rapisce: “Nel Signor chi si confida / col Signor risorgerà.”
Quale augurio migliore? Quale senso più pieno per riempire i nostri talora vuoti “buona Pasqua”?!