«Bailamme» è parola che viene dal turco «bayram», e significa "festa", un fastidioso chiacchierare e gridare di gente che va e viene. I nostri giorni sembrano sempre più un fastidioso chiacchiericcio dove è difficile comprendere dove sta la ‘verità’ delle cose. Continuiamo il nostro viaggio con questa rubrica mensile dando voce ad alcune parole del chiacchiericcio quotidiano e cercandovi un senso. Oggi pubblichiamo l’articolo di RICCARDO MACCIONI (AVVENIRE 14/2/2025) che svolge la sua riflessione su come al Festival di Sanremo si stia facendo spazio alla nostra fragilità -umanità- non più nascosta. Elogio dell’imperfezione.
Dicono che sia amore quando vivi i difetti dell’altro come se fossero virtù. È la magia, o la chimica come si dice adesso, che unisce due imperfezioni e ne fa non un essere perfetto ma due mondi che sanno usare le parole e i gesti giusti per incontrarsi, per abbracciarsi, per condividere il cammino dei giorni. Perché in fondo, quasi sempre, ad affascinare, più dei grandi talenti o della genialità sono le inadeguatezze da combattere, le timidezze da evitare che diventino gabbie di solitudine, le paure da vincere insieme. E non vale solo per i legami da fiori e cioccolatini ma anche nella vita di tutti i giorni, in famiglia come a scuola o sul lavoro. In queste ore stiamo capendo che neanche il Festival di Sanremo sfugge alla regola, a dispetto di abbigliamenti trasgressivi, di atteggiamenti da divi, delle migliaia di follower che ti seguono adoranti sui social.
Scesi dal palcoscenico si è ragazzi e ragazze, uomini e donne come tutti, con i problemi legati al tradimento di un amico, alle angosce di un figlio che non ti fa dormire, all’indifferenza di un compagno o di una compagna che non sembra capirti più. La novità, semmai, è che adesso questa normalità di esistenze difettose diventa canzone o, ancora di più e meglio, testimonianza, storia, racconto. L’ha detto benissimo Francesca Michielin a margine di un brano forse non indimenticabile che però lei interpreta con la solita grintosa dolcezza: «In un mondo che spinge a essere sempre invincibili e perfetti, io voglio riscoprire l’imperfezione. La bellezza sta nel talento, ma anche nell’autenticità, nell’essere umani».
E a conferma della sua confessione, il messaggino scritto al padre dopo aver saputo di essere tra le ultime a esibirsi nella seconda serata di gara, quando le persone comuni sono già a letto. «Resti sveglio a guardarmi almeno tu? Per favore». Come lei il cantautore Lucio Corsi, che arriva a piedi al teatro Ariston, che passando dal pianoforte alla chitarra mette il microfono sotto il braccio perché non sa dove posarlo, e intanto canta «volevo essere un duro, un robot, un lottatore di sumo». Nella realtà però ha persino paura del buio e se facesse a botte le prenderebbe. E non serve a niente nascondersi dietro frasi aggressive o truccarsi gli occhi di nero perché in fondo «io non sono altro che Lucio».
Dove il “segreto” del ragionamento sta proprio in quel non essere niente di diverso da quello che si è: imperfetti e fragili, cioè umani. Ed è giusto non vergognarsene, anche quando il corpo fa fatica e il tempo ti mette alla prova molto prima di quando te lo aspetteresti. Come è capitato alla supermodella Bianca Balti che aveva capelli neri, lunghi e bellissimi, e adesso è calva per colpa della chemioterapia ma malgrado questo riesce a gridare il suo desiderio di stare al mondo, riassunto in una piccola, meravigliosa frase: «non vengo a Sanremo a fare la malata di cancro, sono qui per celebrare la vita». Che non vuol dire nascondere la sofferenza ma presentarsi agli altri senza maschere: eccomi, sono qui, sono così.
Parole devastanti nella loro disarmante naturalezza a coprire un concetto tanto semplice quanto vero, che cioè nessuno è la sua malattia e la fragilità fa parte di ognuno di noi. Non colpa o zavorra ma la normalità del nostro essere umani, capaci di sorrisi e lacrime, senza che il prevalere degli uni sulle altre o viceversa giustifichi un giudizio di merito, o di fallimento. Difficile dire quanti malati come Bianca trarranno forza ascoltandola ma certo la sua testimonianza può aiutare a uscire dal buio, a vincere la vergogna di sentirsi diversi, soprattutto a non avere paura a guardarsi.
Fragili sì ma senza sentirsene responsabili, fragili perché umani, e ciascuno a modo proprio. Ognuno con le sue imperfezioni, macchie d’inchiostro nel racconto dei giorni, nella speranza che, visto l’impossibilità che scompaiano, diventino un sorriso, un fumetto, un disegno di gioia. E magari, perché no?, la firma di una storia d’amore.