A Torino il 22 e 23 febbraio un incontro controcorrente per aiutare gli adolescenti a riflettere sul significato della corporeità.
Da qualche anno, durante l’estate, a Ceresole Reale, ai piedi del Gran Paradiso, versante piemontese, viene organizzato un festival della “Parola in-sorgente”. Incontri sorprendenti per tornare al significato autentico dei nostri intrecci espressivi con l’obiettivo di liberare i valori imprigionati dai luoghi comuni che offuscano la nostra sete di libertà. Adesso gli amici del festival hanno deciso di proporre una riflessione “invernale” dedicata all’uso e all’abuso del corpo nella nostra confusa postmodernità. “Corpi in mostra. Desideri in trappola. Prima deformance” (22 e 23 febbraio al Teatro Giulia di Barolo, a Torino. Il programma integrale su https://www.laparolainsorgente.it) è un progetto che nasce – spiega il curatore Fabio Cantelli Anibaldi – «da tre anni di dialoghi con adolescenti e giovani di molte parti d’Italia in licei, università, associazioni. Nasce dal bisogno di continuare a riflettere con loro – senza escludere quei pochi adulti che guardano la realtà senza l’atteggiamento di chi impartisce condanne o concede assoluzioni – sulle questioni del corpo e del desiderio». Filosofo, scrittore, già vicepresidente del Gruppo Abele, Cantelli Anibaldi approfondisce nell’intervista qui sotto il senso dell’iniziativa, realizzata grazie al generoso sostegno di Paolo Costa, fondatore di Febametal. Intervengono tra gli altri Bruno Gambarotta, Walter Sini, Francesca D’Aloja, Loretta Patrini e Lorenzo Berto, Antonio Franchini, Edoardo Albinati, Serena Fagnocchi. Obiettivo, far comprendere agli adolescenti il dramma in cui siamo tutti immersi «con corpi perennemente esposti agli sguardi di un pubblico, corpi indossati ma non vissuti, corpi sedotti dai dettami della moda dominante e perciò – conclude il curatore – desolatamente “seriali”, cloni di un’unica matrice».
Corpi in mostra, desideri in trappola. Perché questo titolo?
Perché c’è una correlazione – risponde il filosofo e scrittore Fabio Cantelli Anibaldi, curatore dell’iniziativa – tra il corpo esibito, spesso mercificato, e l’inevitabile frustrazione di pulsioni che si credono desideri. Desiderio è l’ardente tendere dell’essere umano a un altrove a cui sente di appartenere ma che ritrova solo in effimere felicità, perché ciò che desidera è la beatitudine della vita prenatale, quando ognuno di noi è stato corpo embrionale, informe, creatura incosciente ma nondimeno senziente. Ebbene i corpi formati conservano in ogni loro cellula la memoria di quel sentire assoluto, ma se chi li abita li tratta solo come mezzi di azione, forza o seduzione, e come organismi di cui prendersi cura solo quando la malattia li rende inefficienti, mai conoscerà la passione trascendentale del desiderio ma solo la giostra vorticosa delle pulsioni. Giostra destinata a diventare circolo vizioso perché, se il desiderio è anelito a essere, la pulsione è brama insaziabile di possesso. Il modo di vivere occidentale – ovvero, oggi, globale – è dominato dalle pulsioni quindi destinato, passata l’ebbrezza predatoria, a un’inevitabile, irrimediabile frustrazione.
Se la “performance” in riferimento al corpo è sempre negativa, perché dobbiamo considerare con sguardo positivo la “deformance”?
Perché per “deformance” – parola con cui ho voluto schernire l’abusato, insopportabile aggettivo “performante” – intendo l’azione che rimette il corpo al centro non della scena ma della vita. “Deformance” si dà quando si consente al corpo di prendere parola e raccontare vissuti ignoti o ignorati da chi il corpo si limita ad analizzarlo o usarlo per i propri scopi. Per questo ho scelto di non invitare psicologi, nutrizionisti o campioni dello sport ma scrittori e persone che hanno fatto i conti con l’evidenza dell’essere il corpo che hanno, affinché raccontino come questa consapevolezza ha inciso nel loro scrivere o, in generale, esistere.
Qual è la cultura che sollecita e plaude a questa triste “esposizione universale dei corpi”?
La cultura del mercato, sistema che ipnotizza le masse con l’offerta di prodotti a prezzi accessibili illudendole che il problema di come vivere sia riducibile a quello di cosa avere: se acquisterai tante cose, o almeno alcune in particolare, la tua vita brillerà di una nuova luce, riscuotendo consenso e ammirazione. Potentissime leve del mercato, i “social” spacciano l’illusione di poter risplendere senza nemmeno acquistare, illusione che ha trovato miliardi di proseliti perché nell’era della comunicazione globale la paura più diffusa è quella di passare inosservati. Ma se in un bambino il bisogno di richiamare l’attenzione è fisiologico, figlio dell’incapacità di stare solo, e in un adolescente si fa più scaltro celandosi dietro accurate strategie di seduzione, in una persona adulta dovrebbe essere superato dalla consapevolezza che esistere non significa esibire al mondo le proprie avvenenze o competenze – oggi va di gran moda la parola inglese “skills” – ma procedere nella conoscenza di sé stessi e della vita lungo rotte esistenziali ignorate dalle mappe “mainstream”. La conoscenza di sé è un procedere nell’Altro e nell’Oltre che rende appassionante il fatto stesso di esistere, a prescindere dalla sua risonanza pubblica. L’attuale esposizione universale di corpi è figlia di un micidiale mix di individualismo ed egocentrismo ignari del loro essere massificati, convinti che il proprio sé alberghi nei “selfie”.
Ma dobbiamo davvero allarmarci per il disagio nei confronti del corpo che accompagna tutti gli adolescenti? Non si tratta di una situazione fisiologica che coinvolge i normali processi di crescita?
L’apparizione del proprio corpo è da sempre un momento fondativo dell’adolescenza. Da bambini e ragazzini il corpo ci limitiamo a usarlo finché, all’improvviso, ci appare allo specchio come un “altro” che però altro non è, essendo l’immagine destinata a rappresentarci agli occhi del mondo. È raro che un adolescente si riconosca nell’immagine del proprio corpo e da questo disconoscersi possono nascere drammi laceranti perché il corpo gli appare come una zavorra, un ostacolo a quell’assoluto a cui tendono i suoi desideri. L’espressione “disturbo alimentare” è grottescamente inadeguata perché i conflitti tra l’adolescente e il corpo hanno un carattere metafisico: un ragazzo smette di mangiare perché ha fame di assoluto. Detto questo, uno degli effetti più micidiali del sistema del mercato è l’aver abolito o smorzato il rito di passaggio dal corpo usato come strumento al corpo scoperto come altro in te medesimo incarnato, scoperta che, al netto dei drammi di cui ho detto, è decisiva per avviare un adolescente al cammino della conoscenza di sé, dunque alla ricerca di un modo d’essere consono al suo specifico di persona. Un adolescente che scopre oggi il suo corpo per prima cosa pensa a come impiegarlo perché il sistema del mercato glielo consente. Da potenziale mezzo di conoscenza il corpo è stato degradato ad accessorio utilizzabile per farsi notare e magari ottenere successo, soldi, potere. Ne osservo tanti, di giovani, per strada o nei licei, e quello che più mi sconcerta è che, salvo eccezioni, l’omogeneità non concerne più solo le ideologie e gli abbigliamenti – come accadeva nella mia adolescenza, quando il calzare le Clarks era ritenuto di sinistra mentre le scarpe a punta di destra – ma riguarda anche i corpi, gli atteggiamenti, le sintassi. È un’omologazione che, dalle idee e dalle uniformi, è tracimata nei corpi e nelle anime. Il risultato sono individui condizionati che pensano di essere liberi, uguali nella convinzione di essere diversi.
Un’educazione equilibrata all’affettività e alla sessualità può preparare uno sguardo più sereno e meno problematico verso il proprio corpo?
Uno delle conseguenze più deleterie dello svilimento del corpo a strumento e del desiderio a impulso è la riduzione dell’eros a sessualità. Per eros intendo il modo immediato e spesso conturbante con cui percepiamo la vita attraverso una molteplicità di vie e occasioni: il finale di una poesia e l’incipit di una musica, il viso di una persona e la vista di un arcobaleno dopo il temporale. Ad esempio, sono convinto che la mia prima esperienza erotica è avvenuta quando, a tre anni, sulla spiaggia siciliana di Tindari ho visto per la prima volta il mare. Il mare come immagine di un assoluto a cui già allora, inconsciamente, tendevo. Ecco, ridurre l’eros a sessualità è come voler rinchiudere il mare in uno stagno. I preadolescenti – ma il lavoro con i dovuti modi dovrebbe iniziare già dall’età infantile – vanno educati non alla sessualità ma al riflettere sulle proprie emozioni e al dare loro parola, perché è nell’emozione che sperimentiamo in forma pura l’incantevole ed enigmatica potenza dell’esistere. Quindi un’educazione non alla sessualità, ma alla sensualità, apprendimento non teorico in cui la percezione del corpo gioca un ruolo decisivo. Se una persona viene educata a riconoscere il proprio corpo come un costitutivo e indispensabile compagno di viaggio, non lo userà mai per sottomettere, stuprare o uccidere il corpo altrui. L’affettività è già insita nel corpo, si tratta solo di scoprirla.