L’amore può aprire uno spiraglio di luce anche nelle più buie delle notti.
“Ricominciare a vivere dopo la perdita di un figlio”, recita il sottotitolo del testo “Più forte della morte è l’amore”(Piemme 2024, pp. 144, euro 18,90), una storia vera che scaturisce dalle pagine scritte a quattro mani dal monaco benedettino olivetano Padre Bernardo Gianni, abate di San Miniato al Monte, e da Loredana Blasi.
Non esiste, nella nostra lingua, una parola per identificare un genitore a cui muore un figlio. Si definisce “vedovo” o “vedova” chi perde un coniuge, “orfano” o “orfana” chi perde un genitore, quando la morte, seppur odiosa, è contemplata e accettata.
La perdita dei figli, invece, è una possibilità tanto spaventosa e innaturale, che non la si vuole nemmeno immaginare, figuriamoci darle un nome. È il dolore più grande che si possa provare, una ferita che non si rimargina mai.
Il dialogo tra Bernardo Gianni e Loredana Blasi dimostra che confrontarsi su questo tipo di terribile esperienza che si è portati, per tante ragioni, a vivere nella propria intimità, può generare fili che, intrecciandosi, formano un canestro nel quale raccogliere altre storie, altri dolori, altre perdite. Ne parliamo con Loredana Blasi.
«C’è una data spartiacque, il 12 febbraio 2004, giorno dell’incidente in moto di mio figlio Tommaso, scomparso a neanche ventiquattro anni di età. Il prima era rappresentato da una famiglia normale e affiatata, con due figli vicini per età, con un solo anno di differenza. Poi è successo l’incidente che ha segnato profondamente la nostra vita, portando un dolore immenso e buio. Poi, piano piano, abbiamo cercato di risollevarci, sempre uniti dall’amore. Questa tragedia ha imposto cambiamenti importanti, anche nel nostro modo di pensare. Cambiamenti non solo negativi, perché abbiamo compreso la vera importanza delle cose. Io stessa sono cambiata».
«L’ho conosciuto al cimitero delle Porte Sante, che circonda la Basilica di San Miniato al Monte. Padre Bernardo era allora un giovane monaco, non era famoso come adesso. Tommaso riposava provvisoriamente all’interno di una cappella e lì trovai padre Bernardo, che era venuto a trovare quel giovane ragazzo di cui gli avevano parlato e a occhi chiusi, con la mano appoggiata sul marmo, dove ancora non era scritto il suo nome, si intratteneva, credo, in un intimo colloquio con lui. Mi presentai e mentre ci incamminavamo verso la basilica, gli parlavo di mio figlio. Ricordo che una volta all’interno, padre Bernardo mi riempì di candeline con il supporto rosso, nel tentativo di darmi luce attraverso di esse. Quello con padre Bernardo è stato un incontro voluto dal cielo, sarebbe stato difficile senza il suo supporto. È una grande risorsa. È un uomo illuminato, che riesce ad arrivare al cuore di chiunque».
«No, all’indomani della mia tragedia non ho percepito questo, ero troppo presa dal mio dolore. Scientemente non lo percepivo, ma il mio spirito sì. Siamo tutti alla ricerca di un senso. La prima cosa che ti domandi quando muore un figlio è: “Dove sei ora?”. I primi tempi mi mancava moltissimo. Mi manca ancora, ma in modo meno violento. Ora so che Tommaso è sempre accanto a me, nel mio cuore. È negli occhi di Dio, in un’eternità dove andrò anch’io, in un eterno presente. Dico sempre che noi genitori non dovremmo sopravvivere ai nostri figli».
Di che cosa si occupa “La Stanza Accanto” (https://www.lastanzaaccanto.it/), associazione fondata da Lei e da Padre Bernardo?
«“La Stanza Accanto” si occupa di supportare, ascoltare, abbracciare i genitori che perdono un figlio, non ha importanza che siano cattolici o meno. Nel corso degli anni, tramite i calendari in ricordo dei nostri ragazzi, abbiamo fatto tanta beneficenza, anche all’estero».
«Sì, per la mia parte è un libro autobiografico, perché ho parlato della mia storia con uno sguardo a quelle persone che si trovano nella mia situazione, quindi il libro potrà aiutarli, perché potranno attingere consolazione e speranza. E ci si ritroveranno».