Quest’estate ho letto un libro che mi ha fatto riflettere e che voglio utilizzare per entrare nel merito di alcune questioni che, come scuola, ci troviamo spesso ad affrontare.
L’autore, un filosofo tedesco contemporaneo (Byung-Chul Han, 2020) sostiene che oggi tutti noi adulti, ragazzi, insegnanti, genitori, cittadini, abbiamo sviluppato una paura generalizzata del dolore, paura che lui definisce come “algofobia”. Specifichiamo: è chiaro che tutti noi abbiamo paura del dolore, soprattutto di quello fisico (che abbiamo imparato a controllare spesso anche eccedendo nell’uso di farmaci non sempre necessari) ; la sofferenza di cui parla l’Autore è soprattutto una sofferenza psicologica e mentale, parecchio diffusa oggi sul piano sociale, che ci porta sempre di più a evitare qualsiasi situazione che, in qualche modo, possa arrecarci disturbo.
Nella nostra società, conosciuta e vissuta come società del benessere che promette a tutti di essere felici, diventa sempre più difficile capire e far capire che, per arrivare a stare bene dentro, non solo nel corpo ma anche dentro di noi nell’anima, per arrivare a raggiungere i propri obiettivi, è necessario mettere in conto anche un po’ di sofferenza. Anche la fatica, anche lo sforzo, a volte anche il dolore provocato da una caduta sono infatti aspetti “normali” della nostra vita che, anzi, ci permettono spesso di capire come sia possibile rialzarsi e andare oltre l’ostacolo che ci ha fatto cadere. La metafora della salita in montagna è un esempio classico che serve per comprendere il significato di dolore di cui stiamo parlando: arrivare sulla cima del monte non è mai facile, bisogna arrampicarsi e fare fatica, bisogna sforzarsi anche se le gambe sono doloranti, bisogna fare leva sulla volontà per affrontare le salite impervie che si possono presentare, bisogna rialzarsi dopo una scivolata e continuare anche se, magari, ti sei sbucciato le ginocchia. In montagna, come nella vita, è necessario attrezzarsi per superare i passaggi difficili, per camminare sui sentieri scoscesi dove si rischia di cadere, ritrovare il fiato che sembra mancarti per le difficoltà che devi affrontare; ma se vuoi arrivare in cima (così ti dice chi vuole incoraggiarti) devi anche un po’ soffrire. O no?
Se non in montagna ma sicuramente nella vita a ognuno di noi è capitato di trovarsi in difficoltà o di vivere esperienze dolorose ma non per questo ci siamo fermati, anzi, la soddisfazione di avercela poi fatta ci ha spesso ripagato di tutte le fatiche. Il libro che ho letto non parla ovviamente della salita in montagna ma sostiene che, non in montagna ma nella quotidianità, noi tendiamo a dimenticarci che la premessa per vincere richiede anche un po’ di sacrifici (che è quello che, abbiamo recentemente potuto constatare anche nelle Olimpiadi e nelle Paraolimpiadi).
Purtroppo l’atteggiamento di rifiuto di qualsiasi sofferenza è oggi abbastanza diffuso e non solo tra le nuove generazioni. Nel mondo dove tutto è gratis e garantito, capita sempre di più di registrare situazioni di persone che invece si lasciano andare, che di fronte al più piccolo ostacolo lasciano perdere evitando lo sforzo perché guai a fare fatica, guai a non essere felici e soddisfatti!
Scrive l’Autore: “Nell’epoca moderna in cui l’ambiente ci infligge sempre meno dolore, i nostri ricettori del dolore paiono diventare sempre più sensibili”. Siamo diventati così intolleranti alla sofferenza che evitiamo persino di guardare ciò che in qualche modo ci ricorda il dolore e spesso cambiamo canale se la Tv ci mostra un fatto assolutamente tragico che ci potrebbe turbare.
Invece la fatica, lo sforzo, anche le cadute fanno parte della normalità e dobbiamo non solo attrezzarci ad affrontarle ma capire che è solo passando attraverso questi sforzi che si riesce ad arrivare.
Perché tutto questo discorso che ci inquieta ma che sicuramente, da adulti consapevoli, riusciamo a comprendere?
Perché a noi educatori della scuola capita spesso, soprattutto in questi ultimi anni, di vedere negli studenti l’atteggiamento rinunciatario che abbiamo evidenziato. Molti sono i ragazzi (anche bambini) che affrontano il lavoro scolastico senza alcuna voglia di sforzarsi, che di fronte al primo ostacolo si scoraggiano e si bloccano, che scelgono sempre le vie più facili per reagire o che, di fronte alla più piccola difficoltà dicono: “Ah no, non ce la faccio, lasciamo perdere!” E neppure ci provano.
Come insegnanti ed educatori noi ci proviamo a rendere piacevole tutto ciò che a scuola può apparire difficile: curiamo le relazioni con loro e utilizziamo delle metodologie attive per coinvolgere gli alunni nei meandri dei saperi che possono apparire bui e difficili da attraversare. Siccome la letteratura pedagogica ci assicura che il lavoro cooperativo è molto più efficace nel promuovere l’apprendimento (Comoglio ,1998), organizziamo i banchi a isole e attiviamo lavori di gruppo per rendere più accessibile e più piacevole l’attività. Siccome sappiamo che lavorare con le mani e con il corpo è più facile interiorizzare le conoscenze affrontate, ci diamo da fare per proporre attività laboratoriali che rendono gli studenti protagonisti del loro apprendimento.
Le difficoltà, gli ostacoli, la fatica, anche la noia e la tristezza però fanno parte del percorso e non possiamo pensare di eliminarli tutti proprio per il valore educativo che essi assumono.
Considerare insensato il dolore, dice l’Autore, riduce la nostra vita a processo biologico anzi “la stanchezza dell’IO isola gli esseri umani invece di riunirli in un Noi. Invece “la sensatezza del dolore presuppone una narrazione che inserisce la vita in un orizzonte di senso.”
Anche il comportamento auto-aggressivo che vediamo sui social praticato da molti adolescenti sembra ricondursi, come sostengono anche altri autori (Lancini, 2023), ad un messaggio esasperato di chi ha la necessità di farsi riconoscere e usa i segni della sofferenza per attirare l’attenzione e l’amore degli adulti che non si occupano di lui. In questi casi il dolore diventa un messaggio che urla e racconta la propria infelicità per una vita all’insegna dell’edonismo che lo ha occultato. Anche la digitalizzazione può diventare un’anestesia per banalizzare il dolore quando, nei videogiochi e nelle immagini violente sugli schermi l’atto di uccidere si traduce in una situazione “in assenza di dolore” che, poco per volta, attutisce la percezione di coinvolgimento emotivo sull’Altro. Per non soffrire le emozioni negative vengono attenuate e finiscono però per renderci insensibili nei confronti del dolore altrui.
Allora il patto tra scuola e famiglia deve oggi arricchirsi della convinzione che almeno la fatica (una dimensione che oggi non è più di moda per nulla), va invece recuperata. Venire a scuola implica la fatica di impegnarsi e di fare degli sforzi, rispettosi dell’età e delle caratteristiche dei singoli alunni ma finalizzati ad ottenere dei risultati. Molti ragazzi non tutti naturalmente) oggi non hanno più nemmeno la consapevolezza che i risultati dipendono da loro e sono convinti che tutto sia dovuto e che tutto accadrà anche senza un loro coinvolgimento. Non è così e, come scuola e come famiglie, dovremo impegnarci per rimuovere questa convinzione errata che non è per nulla generativa. Se a scuola pretendiamo dagli studenti lo sforzo di uno studio e di un impegno che richiede attenzione, dedizione e tempo da sottrarre al piacere ludico, è perché ci sta a cuore che siano loro a imparare (non noi che facciamo lezione ma loro che si rapportano alle conoscenze attraverso la ricerca e la scoperta),perché ci piace pensare che noi siamo gli accompagnatori che li incoraggiano alla scoperta dei saperi ma sono loro che se ne impossessano e poi li usano per continuare a crescere in modo convinto e deciso.
Operazione difficile?
Sicuramente, per la scuola e per le famiglie, un’impresa, quasi una sfida oggi, da portare avanti insieme con la convinzione che sacrificarsi per qualcosa vuol dire “rendere sacro” quel qualcosa, cioè compiere un’azione che dà un senso e valore a se stessi e alla propria vita; in questo modo capiamo perché persino un sentimento di insoddisfazione come la noia oggi ci può aiutare a riscoprire la creatività che molti di noi non sanno più che cosa sia.
BIBLIOGRAFIA
Byung-Chul Han, 2020, “La società senza dolore” , Giulio Einaudi Editore, Torino
Comoglio M., CardosoM.A., 1998, “Insegnare e apprendere in gruppo. Il cooperative Learning”. Las, Roma
Lancini M., 2023, ”Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta”. Raffaello Cortina Editore, Milano