«Il processo didattico è un processo di natura relazionale,
nel senso che mira a sostenere lo studente
nella acquisizione della capacità
di dare un senso alla propria esperienza,
in un clima di scambio aperto e continuo»
(K. Rogers)
Per lavorare bene in classe con i nostri alunni e promuovere apprendimento, un presupposto fondamentale è il loro benessere socio-emotivo e la buona relazione che i ragazzi stabiliscono con i loro docenti.
L’apprendimento infatti non è, o non è più, inteso solo come un mero processo di acquisizione di nozioni ma una relazione educativa innestata sull’interazione insegnamento/apprendimento e fondata quindi sull’incontro tra docente e alunno. L’investimento però non solo comporta un’implicazione sul piano dei saperi scolastici (da trasmettere da parte dell’insegnante, da acquisire da parte dell’alunno), l’implicazione è anche profondamente umana e passa attraverso le dimensioni emotivo-affettive sia dell’uno che dell’altro. Sul piano pedagogico anche i modelli educativi sono cambiati e migliorati nel corso degli anni mettendo a punto un approccio metodologico nell’ insegnamento: i metodi tradizionali del “io spiego/tu ascolti” hanno lasciato spazio a un apprendimento di tipo costruttivista che pone l’accento sule modalità con cui l’individuo apprende. Tra queste modalità (uso della memoria e dei propri processi cognitivi) rientrano oggi più che mai gli aspetti emotivo-affettivi che determinano anche un orientamento positivo o negativo verso l’apprendimento. Le emozioni infatti giocano un ruolo determinante nel processo di costruzione delle competenze. Scrive Daniela Lucangeli (2023): «Il cervello è un organismo meraviglioso in cui l’intero (riferito a cervello destro e cervello sinistro) si attiva insieme e contemporaneamente». E ancora, prendendo dagli studi neuroscientifici: «L’elaborazione cognitiva di qualsiasi informazione NON è indipendente dalle emozioni che proviamo: non c’è atto della vita psichica che non sia contemporaneamente cognitivo ed emotivo».
Anzi, secondo le neuroscienze che ne hanno testato l’evidenza, le emozioni si sviluppano addirittura prima di qualsiasi elaborazione cognitiva.
Questo vuol dire che i nostri alunni studiano e si attivano solo se si sentono emotivamente coinvolti? SÌ (per precisare: la parola motivazione è costituita da due parole: motivo e azione e, per come viene definita nel vocabolario Treccani, fa riferimento a “desideri o intenzioni che prendono parte alla determinazione del comportamento”).
Vuol dire che è molto più facile pensare che si impara di più quando l’insegnante cura anche gli aspetti caldi della relazione educativa (attenzione e fiducia, incoraggiamento, promozione di interesse e curiosità per il compito, empatia) che non quando ci si limita alla spiegazione del compito con relativo esercizio dove spesso prevalgono noia e rapida perdita dell’attenzione.
Chiaro che i docenti possano a volte sentirsi impotenti di fronte agli atteggiamenti passivi ma anche provocatori di alcuni alunni che, quasi sempre, non ne vogliono sapere (di studiare ma anche di rispettare le regole condivise, ma anche di partecipare). Chiaro che non si possono sempre risolvere le situazioni di fragilità di tutti né si può pensare di poter rimuovere le condizioni problematiche che stanno a monte del loro comportamento e che hanno spesso origine fuori dal contesto scolastico; rimane però in capo al compito professionale dei docenti l’attivazione di tutte le strategie per aiutare questi alunni (ciascun alunno), per aiutarli a ritrovare la fiducia in se stessi e recuperarli ad una partecipazione attiva che promuova soddisfazione per ciò che stanno facendo.
Di fronte all’opposizione di chi nella scuola ritiene che debba essere il ragazzo a recuperare (non studia, non sta attento, disturba, non fa i compiti, fa assenze strategiche per evitare le verifiche) ci si può chiedere: «Ma a chi tocca a scuola motivare e coinvolgere i ragazzi che rifuggono dall’impegno scolastico e che non risultano agganciati né sul piano relazionale né su quello scolastico?»
Sappiamo che sono alunni “in crescita” e che vengono appositamente a scuola per migliorarsi, per maturare un senso di responsabilità che ancora non hanno acquisito, per imparare anche attraverso gli errori, per puntare al proprio successo formativo e non solo ai contenuti disciplinari che pure rimangono fondamentali.
Recitano le Indicazioni Nazionali per il primo ciclo di istruzione: «Una buona scuola primaria e secondaria di primo grado si costruisce in un contesto idoneo a promuovere apprendimenti significativi e garantire il successo formativo per tutti gli alunni» (a diversi livelli naturalmente). Così recita la normativa anche se spesso il compito risulta arduo per i docenti se non emerge una solida alleanza scuola-famiglia che può rendere possibile il superamento di alcuni ostacoli che bloccano o disturbano il percorso scolastico del figlio e dell’alunno.
Ma allora significa che bisogna “voler bene” (volere il bene) ad ogni alunno? SÌ!
La relazione instaurata a scuola con i propri insegnanti costruisce dentro di noi, sia nel bene che nel male, un legame autentico che non si rompe facilmente e che finisce anche per influire sulle scelte successive: sarò ben disposto verso nuove attività di approfondimento se ho della scuola un ricordo caldo di buoni risultati raggiunti accompagnati affettuosamente dagli sforzi portati avanti con il “mio” insegnante. Diversamente, non vedrò l’ora di andarmene da una situazione di disattivazione cognitiva ed emotiva da cui mi porto a casa frustrazioni cocenti.
L’empatia, che fa parte del bagaglio professionale di ogni docente, è una delle competenze emotive da mettere in campo, una modalità relazionale di aiuto reciproco e spontaneo basata sulla capacità di comprendere l’altro e di “sentire” come l’altro nella sintonia delle emozioni e degli intenti.
Può diventare allora più facile far emergere non la fuga ma la soddisfazione degli alunni per ciò che stanno facendo perché, come ancora la Lucangeli ci insegna ma come già, con altre parole, hanno teorizzato sia psicologi che pedagogisti “la soddisfazione sta all’apprendimento come la benzina sta alla macchina”.
Questo vale per tutti, anche per noi adulti, e serve, da una parte, a sviluppare le competenze necessarie per affrontare le sfide scolastiche, sociali, personali della vita dentro e fuori dalla scuola e, dall’altra, a soddisfare anche per il futuro i bisogni di appartenenza, equilibrata identità e riconoscimento del proprio valore.
Non esiste nessuno che non abbia in tasca almeno un talento (un’abilità, una potenzialità, un’attitudine particolare) e la scuola non può che cercarlo per aiutare l’alunno a svilupparlo.