Ben ritrovati, carissimi ragazzi e ragazze. Il nostro racconto della vita di santa Paola Elisabetta Cerioli si avvia ormai alla conclusione, ma prima di arrivare a quel 24 dicembre 1865, quando la Madre morì o, in un’ottica di fede più adatta a lei, passò da questa vita a quella eterna in Dio, vi è ancora un’opera importante da lei realizzata su cui vale la pena di soffermare la nostra attenzione: mi riferisco alla nascita del ramo maschile della Congregazione della Sacra Famiglia ben noto a coloro tra voi che, per esempio, hanno frequentato o frequentano le scuole di Martinengo o di Orzinuovi…
Per potervi raccontare questa storia, vi chiedo di tornare con la memoria a una decina di anni prima, a quel gennaio 1854 quando Costanza visse il dolore tremendo della morte del figlio Carlo e a quelle misteriose parole che lui le disse in punto di morte (“Oh! il Signore ti darà altri figli”); esse sono diventate ormai emblematiche per la loro capacità di riassumere in sé l’indirizzo che prese poi la vita di quella giovane madre (presto anche vedova), ma sappiamo, perché lo abbiamo raccontato, che non si trattò di una “formula magica”. Per comprendere come dare ad esse attuazione concreta, Costanza dovette affrontare un non semplice periodo di discernimento spirituale (si tratta, perdonate la definizione decisamente insufficiente, di cercare di comprendere il senso, l’orientamento da dare alla propria vita leggendola e rileggendola lasciandosi guidare dalla Parola di Dio e dalla preghiera). Non staremo ora a ripetere il percorso che portò la Fondatrice a dar vita alla Congregazione femminile; a noi basta ricordare che già un mesetto dopo la morte del figlio, ella aveva in mente la creazione dell’“Istituto Carlino”, un orfanotrofio maschile che si occupasse di poveri contadini abbandonati. Il resto ormai ci è noto: quel che nacque fu un istituto femminile, ma la verità è che il progetto di occuparsi dei figli maschi di quel mondo contadino a lei tanto caro, anche se messo da parte per necessità, non abbandonò mai suor Paola Elisabetta.
Un primo vero progetto è documentato nel 1860, quando la Madre mette per iscritto quelle che, secondo i suoi piani, avrebbero dovuto essere le fasi di un processo da mettere in atto già l’anno successivo. Dopo una fase di Avviamento, vi sono indicazioni precise anche per quella di Avanzamento ovvero di costituzione dell’ Istituto della Sacra Famiglia, formato da Padri, cioè religiosi ordinati e da Fratelli, nome scelto per i coadiutori laici. Oltre all’organizzazione, in questo scritto intitolato Memorie riguardanti i Figli di S. Giuseppe, la Cerioli indica anche gli scopi e i compiti di questa sua nuova “creatura”: oltre all’insistenza sull’educazione e la custodia dei giovani (i Figi di S. Giuseppe), al centro della formazione rimane il lavoro agricolo: accanto al leggere, scrivere e far di conto (abilità tutt’altro che marginali in quel contesto), sono previste nozioni di botanica, chimica e zoologia.
Tutto pronto per il via, dunque? Non proprio: se il progetto sulla carta era definito, non fu facile per suor Paola Elisabetta trovare religiosi disponibili ad applicarsi in tal modo all’agricoltura; senza contare che all’epoca non tutti, anche fra le sue consorelle, erano convinti dell’opportunità di fondare un istituto maschile. Col tempo, tuttavia, tali perplessità “interne” furono superate e fu proprio suor Luigia Corti, una delle sorelle inizialmente scettiche, ad individuare nel giovane trentenne Giovanni Capponi la figura chiave per l’avvio del progetto. Come andarono le cose?
Per farla breve, vi dirò che attorno al 1861, il fattore di Villacampagna si ammalò e la Cerioli dovette valutare se sostituirlo o affidare quei terreni a mezzadria (una forma di contratto assai diffusa in passato, in base alla quale proprietario e contadino si dividevano prodotti e guadagni ricavati da un podere); fu proprio suor Luigia a suggerirle una “terza via”: affidare il lavoro su quei terreni agli orfani. Per realizzare il progetto occorreva ovviamente individuare i giovani senza famiglia da far lavorare e, soprattutto, i loro educatori. È qui che entra in scena Giovanni Capponi. Nel maggio 1862 egli, che era amministratore e infermiere presso l’ospedale di Leffe, accompagnò la ricca signora Adelaide Dedei in una sua visita a Comonte e fu proprio allora che suor Luigia Corti individuò in quel giovane uomo, così entusiasticamente interessato all’opera della Congregazione, il possibile iniziatore del ramo maschile. L’avvio dell’Istituto non fu tuttavia immediato e non è il caso di ricostruire qui nel dettaglio i mesi che seguirono; vi basti sapere che solo un anno dopo, nell’estate 1863 fu proposto proprio a Giovanni Capponi di fondare, a Villacampagna appunto, la prima casa dell’Istituto maschile. Egli dapprima cercò di sottrarsi, ma dopo varie insistenze e un colloquio col vescovo di Bergamo mons. Speranza, accettò; trovato con sorprendente rapidità il personale necessario, il 4 novembre 1863, sotto la direzione del Capponi, con un sacerdote, tre fratelli laici e un orfano, ebbe inizio questa “nuova storia”.
A questo punto, cari lettori, un’avvertenza di cui forse avete già cominciato a rendervi conto: quando si raccontano le vite e le “opere” dei santi, c’è il rischio di essere presi da una “sdolcinatezza misticheggiante” che fa perdere di vista la realtà concreta in cui essi hanno operato, comprese le fatiche e le difficoltà che hanno dovuto affrontare o contro le quali hanno dovuto letteralmente combattere.
Non vi meravigliate dunque se, appoggiandomi alle fonti storiche, definisco “traumatico” l’inizio della vita dell’Istituto maschile della Sacra Famiglia.
Ma andiamo con ordine e torniamo a quel 4 novembre 1853 per vedere come si svolse quella giornata “storica”: la sera prima erano arrivati a Comonte i tre aspiranti fratelli Giovanni Capponi (direttore designato), Cesare Armati e Angelo Bianchi con il tredicenne orfano Giacomo Paris; il giorno dopo, il vescovo Speranza confessò i fratelli, celebrò la messa e tenne loro un discorso; poi partirono per Soncino, dove li attendeva suor Paola Elisabetta per accompagnarli a Villacampagna e assegnare a ciascuno il proprio compito.
Qualche giorno dopo, la stessa Madre superiora accompagnò là anche il sacerdote cui aveva deciso di affidare l’incarico di Superiore: si trattava nientemeno che di don Luigi Maria Palazzolo che, per chi non lo sapesse, avrebbe poi fondato la congregazione delle Suore Poverelle (che tuttora si occupano, tra l’altro, di una casa di cura intitolata al loro fondatore a Bergamo) e che è stato proclamato santo da papa Francesco nel 2022. Pronti e via, dunque? Non proprio, perché è a questo punto che emergono le prime difficoltà e incomprensioni “fra santi”. Don Palazzolo portò infatti con sé il ventiduenne Davide Colombi e Angelo Aldegani di soli dieci anni che tuttavia non era né orfano né di origine contadina (e non voleva affatto diventarlo); accettarlo avrebbe significato per la Cerioli infrangere due “regole” basilari della sua opera, tanto più che quel ragazzino era troppo giovane anche per essere produttivo nel lavoro dei campi, questione essenziale per una comunità che puntava all’autosufficienza. Neanche l’altro giovane del resto sembrava essere ortolano e agricoltore come era stato presentato, anzi pare volesse studiare da prete. Entrambi erano così “contrari allo scopo”, come scrisse la Corti, che, dopo un richiamo fermo e deciso della Fondatrice stessa, si decise di porre fine all’esperienza e don Luigi lasciò Villacampagna. Non vorrei che queste incomprensioni fra santi scandalizzassero qualche lettore: esse sono casomai la prova ulteriore che i cristiani santi altro non sono che uomini e donne ciascuno col proprio carattere, modo di pensare, coi propri ideali ed esperienze, il che li rende diversi anche nel modo di rispondere alla propria personale vocazione; san Luigi Maria Palazzolo capì semplicemente che la sua attività benefica, nata alle periferie della città, era molto diversa da quella di santa Paola Elisabetta: stessa chiamata all’amore, ma diversi percorsi. Del resto, anche se il trauma ci fu, i rapporti tra i due Istituti religiosi proseguiranno nel tempo.
Con la partenza di don Luigi, fu la Cerioli stessa ad assumere per il momento il ruolo di Superiora, ma le defezioni non erano finite: poco dopo lasciarono anche Bianchi e Colombi, che evidentemente si resero conto che quella non era la loro strada.
Insomma, se ancora non fosse chiaro, quei primi tempi furono davvero difficili né fu facile “reclutare” nuovi fratelli; pensate che dopo due anni di attività, il loro numero ammontava solo a quattro (tra i quali non vi era più neanche Cesare Armati, espulso nel maggio del ’64 per grave infrazione delle regole come altri dopo di lui), mentre i Figli erano saliti a diciannove. Giovanni Capponi non riusciva a darsi pace per quelle difficoltà iniziali, anzi temeva di esserne lui stesso, per incapacità, una delle cause. In realtà, guardando indietro a più di un secolo e mezzo di distanza, si può più obiettivamente individuare la motivazione dei quelle fatiche iniziali nella natura “anomala” del nuovo Istituto ai cui fratelli si richiedevano fatica e sudore per lavorare da esperti agricoltori accanto ai “loro” Figli. In questo Istituto, insomma, anche per precisa indicazione del vescovo di Bergamo, il labora prevaleva nettamente sull’ora, con buona pace del grande san Benedetto da Norcia.
Tuttavia, Giovanni Capponi qualche limite lo aveva: persona dotata di preziose doti umane e spirituali, si era rivelato meno preparato sia come leader che come educatore (e ancor meno pare lo fossero i suoi collaboratori), tuttavia dalla sua corrispondenza con la Fondatrice (all’epoca quella era ancora la maniera più rapida per comunicare) oltre ai consigli e alle indicazioni dispensati, si intuisce come nel 1865 quest’ultima fosse abbastanza soddisfatta dello stile di vita adottato a Villacampagna, soprattutto per l’equilibrio tra devozione religiosa, svago e lavoro nel periodo invernale, quando le attività agricole erano di fatto ridotte a poca cosa. Nei ritmi di vita della comunità non mancavano neppure le gite straordinarie aventi come mete santuari e luoghi che a noi posso far sorridere per la relativa vicinanza, ma che percorsi coi mezzi di allora dovevano apparire come dei veri e propri “eventi”: Caravaggio, Treviglio, Crema e persino la stessa casa di Comonte.
Ma tensioni e crisi continuarono a turbare i primi passi dell’Istituto maschile: Figli che rifiutavano di dedicarsi ai lavori agricoli, tensioni tra i Fratelli e tra questi e i giovani loro affidati provocarono non poche sofferenze e si conclusero in alcun casi con espulsioni. Suor Paola Elisabetta fu molto vicina al Capponi in quel periodo dispensando consigli e precise indicazioni di condotta tra Fratelli ed esortandolo a far valere con maggior decisione la propria autorità; non mancarono neppure lettere dal contenuto assai severo inviate ai Figli stessi.
Anche a motivo di queste frequenti turbolenze, non ci deve meravigliare che le visite della Fondatrice a Villacampagna siano proseguite fino a tutto il 1865, nonostante gli altri impegni e la salute sempre più delicata.
Come se tutto ciò non bastasse, miei cari lettori, a complicare la situazione si aggiunsero anche i sospetti e la diffidenza delle autorità civili di un Regno d’Italia del cui anticlericalismo abbiamo già detto. Nonostante, soprattutto all’inizio, si fosse cercato di mantenere il più possibile “segreta” la natura religiosa della nuova casa, le voci si diffusero rapidamente e così i documenti ci parlano di visite dei carabinieri, denunce e inchieste che si susseguirono fitte e fastidiose. Per fortuna, l’Istituto godeva della stima del vescovo di Cremona mons. Novasconi che, sfruttando una certa fiducia che le autorità politiche nutrivano nei suoi confronti, riuscì a proteggerlo.
Così, tra mille incertezze e tensioni, muoveva i suoi primi passi il ramo maschile della Congregazione della Sacra Famiglia e intanto si avvicinava la fine della vita terrena di suor Paola Elisabetta; ma di questo, cari ragazzi, parleremo la prossima volta.