C’è una preghiera che più di ogni altra tocca il cuore di Dio. A volte ha il sapore amaro delle lacrime o i tratti incerti di un disegno con la chioma verdissima di una pianta e papà che tiene per mano mamma sulla strada di casa. Un’invocazione di parole semplici, o addirittura muta, fatta di occhi aperti su una realtà che non si capisce mentre stringi forte l’adulto che ti porta in spalla. I bambini hanno questo di bello: parlano anche senza dire niente, magari giocando, facendo un capriccio o tirando tardi con il piatto di verdure che proprio non vuole andare giù. Oggi però il loro silenzio diventa una rete fitta di domande inquiete: perché la pioggia è diventata un fiume così violento? Che ne sarà di quella famiglia che non ha più una casa? Davvero qualcuno non tornerà più? E il cane lo recupereranno? Il problema è trovare risposte razionali a dubbi che sono anche i nostri. Come ai tempi del Covid, quando dovevi spiegare, senza spaventare, il motivo per cui si stava sempre in casa. Poi è arrivata la guerra e tutto è diventato più cupo e buio, anche se il giochino elettronico e il cartone erano quelli di sempre. Adesso, nuova pennellata tragica a un quadro di sole tinte scure, l’Emilia-Romagna sott’acqua con i paesi isolati, le frane, i piccoli portati in salvo sul gommone, genitori e amici a cercare rifugio sui tetti. Quasi impossibile non avere paura, difficile anche uscire dal silenzio. Non resta che abbracciarsi e unire le mani rivolte a Dio che ha promesso di ascoltare tutti, a cominciare dai cuori puri come quelli dei bambini. Il loro grido oggi è il più forte e urgente perché profuma di futuro e viene da chi conosce l’importanza degli alberi e di pulire gli argini. E sa che gli idrocarburi fossili avvelenano l’aria, che il condizionatore consuma tanto, che la plastica dev’essere gettata nel contenitore per il riciclo. Se fossimo educati dai bambini, è stato scritto, saremmo adulti migliori. Difficile dire il contrario, anche se forse basterebbe tornare all’essenziale che sosteneva le nostre vite all’inizio del loro percorso: lo stare insieme chiamandosi per nome, la fiducia nell’amico, il sapere che nessuno è sufficiente a sé stesso. Sono le basi di ogni comunità degna di tale nome, sono i fondamenti di un oggi che, piaccia o no, deve superare il vecchio modo di considerare le frontiere, i confini o, peggio, i muri. Non a caso, per la preghiera odierna (il 19 maggio è l’anniversario della sua fondazione, nel 1843) l’Opera pontificia dell’Infanzia missionaria, e in Italia l’organismo della Cei “Missio”, ha scelto come perimetro il mondo intero. Dunque oggi, collegati online, i bambini dei cinque continenti, reciteranno l’Ave Maria ciascuno nella propria lingua, compreso il kirundu e il bengalese, affidando alla Madonna e per suo tramite al Signore, desideri, preoccupazioni, sogni propri e dei loro coetanei.
L’obiettivo è sentire il cielo vicino mettendolo al centro di un girotondo dove i protagonisti sono uniti anche stando distanti e la Rete, oltre che un binario virtuale per far correre le relazioni, è una protezione per non cadere nella solitudine e nella tristezza. Uno accanto all’altro è meglio, si potrebbe dire. Che poi significa andare oltre il proprio io. I bambini lo fanno da sempre. E infatti, più che per sé stessi pregano per papà e mamma, per i fratelli, per l’amico malato, per i coetanei dall’altra parte del mondo bisognosi di tutto. Sono i cuori puri delle beatitudini, sono i piccoli che il Vangelo non tollera siano scandalizzati, sono i sentimenti semplici che arrivano al cuore di Dio. Desideroso solo di trovare l’appoggio dell’uomo perché le lacrime, tutte le lacrime di oggi, domani diventino sorrisi.
Foto di Markus Distelrath da Pixabay