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223. RIFLESSIONE. La Pasqua delle domande

223. RIFLESSIONE. La Pasqua delle domande

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Ogni anno, nella cosiddetta “settimana santa”, si ripetono riti, parole e gesti in tutte le chiese cristiane scandendo il susseguirsi dei giorni sugli eventi che sono inscritti nella passione e morte di Gesù di Nazareth. È una vera singolarità cristiana quella di ripetere e tentare di rivivere ciò che ha vissuto Gesù nell’andare verso la propria morte – eventi, gesti che purtroppo sono entrati a far parte del folklore, fino ad attirare turisti curiosi e non certo credenti! –: nel cristianesimo si è sentito questo bisogno che si è realizzato tra imitazione e sequela. Si imita Gesù, che entra trionfalmente nella città santa Gerusalemme, agitando palme e rami di ulivo e invocando la venuta del Regno di David; si celebra una cena come ha fatto Gesù per dire addio ai suoi discepoli donando loro nel pane spezzato e nel calice del vino condiviso i segni della sua vita spesa nell’amore per gli umani fino all’estremo; si fanno processionalmente cammini della croce che vogliono ricordare i tormenti subiti da Gesù, la sua caduta, gli incontri da lui fatti fino alla crocifissione. Infine si venera la croce: non un patibolo, non uno strumento orribile di esecuzione, ma uno strumento di glorificazione, dove Gesù è innalzato e glorificato fino ad attirare lo sguardo di tutti verso di lui.

Tentativo di mimesis? Necessario coinvolgimento dei corpi dei credenti nella memoria della Passione? Esperienza di lutto e di tenebra da iscriversi nella fede?

I cristiani vivono ancora la settimana santa così e da questa “fatica” dovrebbero, coerentemente con l’intenzione dei Vangeli, arrivare a farsi domande sul perché il giusto diventa vittima dei malvagi fino a essere perseguitato, odiato ed eliminato. Dovrebbero chiedersi perché la violenza prevale dove c’è umiltà, debolezza, mitezza, solidarietà con tutti gli altri in un atteggiamento che si vuole mai contro gli altri, mai senza gli altri, ma a favore degli altri. Chi è cristiano come può non sentirsi ferito dal fatto che Gesù viene rigettato proprio dal potere religioso legittimo, dall’autorità legittima del suo popolo santo? Questo conflitto tra vangelo e religione che permane ancora oggi non interroga? Sono forse certe sfavillanti e trionfali liturgie più da corti imperiali che da piccolo gregge che accecano e non permettono di vedere?

Per secoli, per non farci queste domande, siamo stati ciechi: abbiamo scaricato la colpa dell’assassinio di Gesù sui giudei, chiamati “perfidi” e “deicidi”, oggetto in questa settimana santa delle nostre invettive come giuste vendette… Ma siamo doppiamente ciechi se non comprendiamo il dramma che si rinnova ancora oggi nella storia e nel mondo in cui siamo coinvolti. La vittima è sempre il giusto, il povero, chi è senza diritti e viene chiamato in modi diversi: fuggiasco, migrante, vittima della guerra, esule, oppure semplicemente è una persona che osa sentirsi responsabile di chi ha più bisogno di lui.

La settimana santa, dopo tutta una vita nella quale la celebro con fedeltà e fervore, mi pone ancora tanti problemi e mi obbliga a ripercorrere questo cammino di sofferenza: perché veneriamo, contempliamo, piangiamo Gesù arrestato, torturato, condannato a morte dal potere religioso – grazie al concordato con il potere politico –, crocifisso e morto? Non è follia questa?

Ma nella misura in cui i cristiani credono che Gesù è risorto per aver tanto amato (questo è il segno della sua sofferenza liberamente e per amore patita!) allora la croce non è una follia, ma diventa speranza per tutti.

 

Foto di Gerd Altmann da Pixabay 

Client

di Enzo Bianchi, La Repubblica - 03 Aprile 2023

Date

08 Aprile 2023

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