“I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita.
Nascono per mezzo di voi, ma non da voi.
Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono.”
Khalil Gibran
Quante volte abbiamo detto “mio” figlio? E se Gibran avesse ragione?
Se fossimo più umili, più reattivi alla vita, più uomini e molto meno egoisti, probabilmente noi padri e madri avremmo più consapevolezza del fatto che non siamo proprietari delle vite dei nostri figli ma che tuttalpiù ne godiamo, come un regalo che essi stessi fanno a noi.
L’esperienza del diventare padre è la più sconvolgente che mi sia accaduta. La cognizione del fatto che un altro essere vivente dipenda da te ti catapulta in una dimensione totalmente nuova, sconosciuta, per cui il primo pensiero che si è annidato nella mente è “non sono immortale, come farà senza di me?”. Poi inizia la scuola e realizzi che tuo figlio in realtà può brillare di luce propria senza necessariamente che ad illuminargli la strada ci sia un genitore. La Scuola è di fatto il vero primo distacco fisico da un figlio, il primo “contenitore” di vita parallela a quella familiare. Le sue paure sono le mie, le sue insicurezze rivivono in me, le sue difficoltà nel raggiungere i primi traguardi sono ogni giorno presenti nella mia vita. Ho notato il cambiamento del ruolo di padre già dal primo giorno della scuola dell’infanzia, quando da compagno di gioco ho affiancato la funzione di rassicuratore, motivatore e talvolta alleato. Sono un padre che fino a ieri sentiva di essere un regista, dietro ad un “ciak”, che verificava che il copione venisse eseguito alla perfezione, appena mi sono accorto che il protagonista stava andando a “braccio”, ho concretizzato di aver realizzato un vero capolavoro non nel film, ma nell’attore.
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