Una volta per fare un viaggio ci voleva tempo. Oggi non sembrerebbe più necessario, perché il viaggio non si prepara neanche più, si fa in fretta, e proprio il tempo determina ogni movimento, ogni decisione. Ma per fare un vero viaggio occorre avere tempo, darsi del tempo, prendersi del tempo e non avere paura della lentezza. Fare un viaggio e andare di corsa sono due realtà in contraddizione tra loro. Solo viaggiando, dunque ponendo l’accento sul fare strada, fare via, si può vedere ciò che è bello e ciò che è brutto, si può diventare consapevoli che “camminando si apre cammino”, secondo la straordinaria espressione di Antonio Machado.
Un vero viaggio nasce sempre misteriosamente nella nostra psiche, dove si accende la curiosità grazie a diversi impulsi: una parola in una conversazione, un quadro appeso a una parete, una rivista sfogliata distrattamente ma capace di catturarci con qualche foto, un ricordo, un amore… Allora nasce il desiderio di partire, si progetta e si decide il viaggio: da soli, per gustare nella solitudine ciò che il viaggio può riservare a chi lo fa; o insieme ad altri, per potersi emozionare insieme e vivere insieme l’avventura. A volte il viaggio ha una meta che preme e si impone come sua ragione, altre volte invece è l’idea del viaggiare che ci spinge a partire. Partire, soprattutto in auto, per fermarsi quando si vuole e dove si vuole, per non avere troppi orari, per poter raggiungere luoghi altrimenti vietati da fatiche o costi. Io amo soprattutto viaggiare così; sì, mi do una meta, ma il viaggiare è più importante della meta… Lungo il cammino ci sono opere d’arte da vedere, monumenti da visitare, ristoranti da gustare, spazi per fermarsi a passeggiare e a pensare. Lasciando posto al non atteso, alla sorpresa e all’incontro con qualcuno che a volte fa cambiare l’itinerario, fa sostare di più in un luogo, fa compiere insieme gesti e azioni non previsti. Il viaggio dev’essere un’avventura e deve contenere la possibilità di conoscere qualcuno, bevendo un pastis in Francia, un raki in Grecia, un Martini rosso ovunque nel mondo. E l’auto aiuta a fare il viaggio insieme, almeno per un po’ di cammino.
Certamente nel prepararmi al viaggio il bagaglio è leggero, ridotto al minimo. Di solito una vecchia cartella di cuoio nera che da ben quarant’anni mi ha seguito in Cina e in Zaire, in Canada e in Turchia, in Marocco e in Egitto. Sempre la stessa, e gli amici quando la vedono sorridono, ma mi è cara: mi ha fatto da cuscino per dormire nei corridoi dell’aeroporto di Calcutta, nelle sabbie del deserto di Petra, e sempre mi fornisce, quando la apro al mattino presto o alla sera tardi, un piccolo libro da cui traggo sapienza, consolazione e speranza. Un libro grazie al quale posso pregare anche se stanco, anche se assonnato, anche se mi sento estraneo, molto estraneo rispetto al luogo in cui mi trovo. Dunque, un bagaglio agile ma in cui riesco a far stare tutto ciò di cui posso avere bisogno.
A volte nel viaggio si incontrano contraddizioni, incidenti, e non tutto va come si era previsto. Ma questo non è decisivo, non è neppure causa di arrabbiatura, purché uno si sia dato tempo. In verità l’unica contraddizione al viaggio fatto insieme ad altri è la mancanza di accordo sui ritmi del viaggio. Allora si accendono oscure rabbie trattenute, che fanno promettere di non fare più viaggi con quelle persone; a volte mi è capitato persino di separarmi dai miei amici. Meglio che ognuno faccia il “suo” viaggio. Sì, perché il viaggio dev’essere vissuto nella pace, altrimenti è avvelenato e diventa insopportabile. Per questo da giovane ho amato viaggiare da solo, nonostante i rischi e la solitudine, in India, in Nepal, in Thailandia, in Indonesia e nel Mediterraneo, questo “nostro mare” sulle rive del quale si è sempre a casa, si è sempre tra gente “nostra”, si vedono sempre le stesse case con i loro balconi e i loro tetti che riflettono la luce del sole bruciante in estate, argenteo in inverno.
E il cuore nel viaggio? È un continuo rispondere a emozioni diverse: la meraviglia, la contemplazione, la scoperta, l’incontro con l’incognito, la nostalgia, l’incanto. Nulla si ripete, mentre nella nostra memoria accumuliamo immagini, suoni, profumi, parole, colori che non ci lasceranno più e che dal profondo del cuore risorgeranno quando, anche ad anni di distanza, ricorderemo quel viaggio. Confesso che nei miei viaggi ho addirittura incontrato, poche volte ma impressionanti, alcuni angeli. Mentre entravo nella cattedrale di Chartres, sulla porta un angelo mi ha sorriso, catturando il mio sguardo, destando il mio trasporto, e subito dopo è scomparso: l’ho cercato ma non l’ho più trovato… Non l’ho visto solo io, ma anche chi era con me, dunque non un’apparizione ma un incontro. Così anche sotto l’acropoli di Atene, mentre passeggiavo verso il Theseion, un angelo vestito tutto di bianco, con riccioli neri, mi è venuto incontro, mi ha sfiorato con la mano la guancia, lasciandomi una goccia di profumo di sandalo che ho gelosamente conservato fino a sera. Questa volta l’ho rincorso, ma si è confuso in mezzo a giovani di una scolaresca in visita in quei luoghi sacri: non l’ho più visto… E potrei anche raccontare di alcuni altri incontri sempre con angeli, cioè messaggeri, anche se non so inviati da chi; angeli che, come vengono così se ne vanno, quasi presenze elusive ma che lasciano impresso nel mio cuore il loro volto, il loro sguardo, l’eleganza del loro profilo, in modo da non essere mai dimenticati. Quando è accaduto, dopo la ricerca ansiosa ma inutile, mi sono seduto e sul taccuino ho testimoniato l’incontro, quasi a dipingere un volto che non vedrò mai più ma che ho visto. Sì, ho visto l’angelo!
Nel viaggio una sosta importante è quella per mangiare: mangiare è l’atto con cui chiedo di essere accolto da una terra, da una gente. Accetto di mangiare ciò che loro mangiano e chiedo di poter stare alla tavola che è loro. Per questo ho sempre odiato i camper, in quanto mi sembrano un’offesa alla gente e alla terra in cui si va: ci si porta dietro la propria casa, si mangiano i propri cibi, si dorme a casa propria. Che tristezza e soprattutto che insipienza in chi viaggia con un camper! No, non ci sono scuse né “poesie” possibili nel portarsi dietro quello che uno ha: se si viaggia, si va a chiedere alloggio, cibo e incontro. Per questo il bagaglio dev’essere ridotto, essenziale, perché l’altro possa fare dono di ciò che ha e di cui dispone. E non si ricorra alla metafora della lumaca, perché nel camper non c’è proprio l’istanza della lentezza, e poi per la lumaca il guscio è la protezione che cresce con lei, non la casa che la contiene e che lei si porta dietro. È irrispettoso anche verso le lumache pensare a una loro somiglianza con un camper.
Nel viaggio, dunque, verso le ore tradizionali del luogo ecco il bisogno di sostare e cercare una tavola, un semplice ristorante, un’osteria, un bistrot, dove altri sono seduti a mangiare e dove faccio fiducia di potermi ristorare e bene, con gusto. I piatti, certo, siano quelli del luogo, e non si cerchi di mangiare spaghetti in Nepal o lasagne in Marocco! C’è uno sforzo di conoscenza dei cibi da compiere, ma “dimmi cosa mangi, e ti dirò chi sei”. Si tratta di imparare a conoscere e scegliere i piatti e a cercare di cogliere da dove vengono, quale lavoro umano li ha prodotti, l’arte di cucinarli, la sapienza che ha permesso nei secoli a quei cibi di permanere come tipici di quella terra e di quella gente. La tavola è luogo di convivialità grazie alla conoscenza che si instaura attorno a essa. Occorrerebbe essere sempre disponibili ad ascoltare i camerieri, magari incontrare il cuoco, occorrerebbe sbirciare in cucina e capire gli ingredienti. Per questo quando viaggio in un paese, prima di mangiare, se è possibile, vado al mercato per rendermi conto delle verdure del luogo, dei frutti, delle carni o dei pesci che potrò trovare in tavola. E quando mi siedo dopo un aperitivo, se è d’uso in quel luogo, canto: “Gracias a la vida que me ha dado tanto”, e gioisco guardando i colori del piatto, annusando i suoi profumi, gustando cibi così diversi dal mio quotidiano eppure, nella loro semplicità, quotidiani per quella terra e quella gente presso cui sono ospite a tavola.
Se questo pranzo è fatto nella lentezza, allora fa scoprire profumi, colori, gusti che rimarranno impressi e ci arricchiranno in esperienza e in sapienza. Anche questo servirà per dare sapore ai giorni della vecchiaia, quando vivremo più di ricordi, di vissuto, che non di futuro. La tavola, così differente: piccoli tavolini nel quartiere latino a Parigi, stuoie deposte per terra nel deserto della Giordania, tavolo con tovaglie fino a terra nella calda Danimarca…; eppure è sempre il luogo della convergenza, della convivialità, della parola scambiata, del riso che scoppia, del sussurro di parole amorose. E se poi ci sono calici per versarvi il vino, allora tutti i sensi sono convocati alla festa. Il vino è il sigillo posto su un pranzo: non si è a tavola solo per mangiare, per nutrirsi, ma anche per dirsi quelle parole di cui il vino è simbolo. Il vino ha anche il potere di convocare gli assenti alla tavola: sempre, quando alzo la coppa del vino e brindo ai presenti, penso anche a chi amo e non è presente. Impossibile alzare il calice della sintesi amorosa e non convocare tutti gli amati. Il vino è sulla tavola quale segno di nuzialità erotica con la terra e di erotico amore con gli amati.
Se si è attenti e vigilanti, viaggiare diventa un incontro con il mondo, che si dà a noi attraverso la profusione dei sensi. Non è solo guardare, anche se guardare è la prima operazione del viaggio, ma è immersione negli odori e nei profumi, è intersecare suoni e rumori, è mangiare, gustare e toccare il mondo. Viaggiare è sempre un cammino attraverso i sensi, un esercizio di sensualità, perché è il corpo che si muove tra i corpi, è l’occhio che incontra la luce, è l’orecchio che trova la collocazione, è il tatto che percepisce il freddo e il caldo, mentre i piedi toccano la terra in una relazione viva, in una sensazione mai uguale, delle quali non restano tracce.
Ai giovani mi sento di dire: partite, viaggiate, non abbiate mai paura e abbiate sempre cura di mantenere leggero il vostro bagaglio; così potrete andare lontano. D’altronde, mio padre mi diceva: “Fa’ la fame, ma viaggia e compra dei libri!”. Nella consapevolezza che ogni viaggio, se è vissuto bene, è un libro della biblioteca della vita.
Ora che sono vecchio capisco bene il consiglio di un kalógheros del monte Athos: “Siediti e va’!”. Ma a patto che, prima di sederti, tu abbia viaggiato molto.